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Appunti – Fondazione Gianfranco Ferré

Accessorio

“Elemento fondamentale a complemento dell’abito e a decoro del corpo: secondo questa ottica l’accessorio è da sempre oggetto privilegiato della mia attenzione creativa e di una passione speciale che negli anni è cresciuta e maturata. Necessaria e inscindibile è per me la relazione che lega l’abito all’accessorio. Nascono da una comune ispirazione, vivono in sintonia sin dal primo momento in cui nella mia mente prende corpo una collezione, rimandano alle stesse suggestioni, anche se elaborate in forme e materie differenti. E soprattutto, traducono la stessa idea di qualità e di unicità. Di bellezza e di eleganza. Abito e accessorio: l’uno è lo specchio dell’altro, l’uno aiuta a comprendere l’altro. Meglio ancora, il secondo è uno strumento per l’interpretazione del primo, per una lettura soggettiva del capo. Consente a chiunque di ritrovarsi senza difficoltà in uno stile, sfumandolo ed adattandolo a sé”.

Archivio

La nostalgia è quanto di più lontano esista rispetto al mio modo di essere e di creare. La storia invece è formazione, esempio, analisi, confronto con esperienze già compiute, con traguardi già raggiunti da cui partire per nuove imprese creative. In quest’ottica l’archivio è una never ending story proiettata verso il domani. Un mosaico che si completa e si arricchisce ogni giorno, in cui ogni tessera è realmente essenziale. Più o meno, è così che io “sento” il mio archivio: la raccolta dei capi più significativi – nell’ordine dei seimila pezzi – delle tante collezioni che ho disegnato in trent’anni: il Prêt-à-Porter, l’Alta Moda, l’Uomo, gli accessori… Ogni abito, dicevo, è la tessera di un mosaico. E per ogni abito c’è un perché, una ragione che spiega la sua presenza in archivio. Ragioni emozionali o “tecniche”: un sogno, un ricordo, una suggestione assolutamente fondamentale nel mio immaginario, ma anche una sfumatura di colore ottenuta dopo mille tentativi, la resa speciale di un materiale, una lavorazione particolarmente sofisticata, un taglio eccezionalmente ardito. In questo archivio vive di fatto un cumulo di esperienze che serve per andare avanti, per continuare ad inventare, anche per migliorarsi sempre. E’ la memoria per il futuro.

Camicia bianca

“E’ fin troppo facile raccontare la mia camicia bianca. E’ fin troppo facile dichiarare un amore che si snoda come un filo rosso lungo tutto il mio percorso creativo. Un segno – forse “il” segno – del mio stile, che dichiara una costante ricerca di novità ed un non meno costante amore per la tradizione.

Tradizione e novità sono infatti gli elementi da cui prende il via la storia della camicia bianca Ferré. La tradizione, il dato di partenza, è quella della camicia maschile, presenza codificata e immancabile nel guardaroba, che ha fornito uno stimolo incredibile al mio desiderio di inventare, alla mia propensione a rileggere i canoni dell’eleganza e dello stile, giocando tra progetto e fantasia. Letta con glamour e poesia, con libertà e slancio, la compassata e quasi immutabile camicia bianca si è rivelata dotata di mille identità, capace di infinite modulazioni. Sino a divenire, credo, un must della femminilità di oggi…

Questo processo di elaborazione rivela sempre un intervento ragionato sulle forme. Mai uguale a se stessa eppure inconfondibile nella sua identità, la blusa candida sa essere leggera e fluttuante, impeccabile e severa quando conserva il taglio maschile, sontuosa ed avvolgente come una nuvola, aderente e strizzata come un body. E’ enfatizzata in alcune sue parti, il collo ed i polsi innanzitutto, oppure ridotta ed intenzionalmente privata di alcune sue parti: la schiena, le spalle, le maniche. Si impreziosisce di pizzi e ricami, è resa sexy dalle trasparenze, oppure incredibilmente ricca ed importante da ruches e volants. Si gonfia e lievita con il movimento, quasi in assenza di gravità. Svetta come una corolla incorniciando il viso. Scolpisce il corpo per trasformarsi in una seconda pelle. E’ la versatile interprete delle più svariate valenze materiche: dell’organza impalpabile, del taffettà croccante, del raso lucente, della duchesse, del popeline, della georgette, dello chiffon…

Non credo di sbagliare affermando che la blusa bianca esercita un appeal speciale ed è vissuta come un’espressione di femminilità naturale e raffinata. Soprattutto, ritengo che la blusa candida, così come l’ho interpretata e proposta alle donne, sia emblematica di un modo assolutamente attuale di intendere la moda ed il vestire, proprio per la sua versatilità. Si adatta al pantalone grigio da giorno, alla gonna nera e diritta, al jeans, al pullover, al blouson di pelle. Può essere protagonista assoluta di un look oppure complemento discreto, magari sotto la giacca del tailleur. E’ un capo da giorno e da sera.

E’ “il” pezzo quasi per antonomasia di un guardaroba vissuto in libertà, composto da elementi che si possono accostare tra loro in infinite varianti sulla base di scelte e desideri del tutto personali. Nel lessico contemporaneo dell’eleganza, mi piace pensare che la mia camicia bianca sia un termine di uso universale. Che però ognuno pronuncia come vuole…”

Christian Dior

Il mio primissimo impegno da Dior è stato quello di coglierne lo spirito, per comprendere in che misura poteva appartenermi, in che orizzonti potevo muovermi.

In questo mi ha aiutato la mia determinazione, ma anche la serie di affinità profonde con Monsieur Dior nel concepire l’eleganza: per esempio nella percezione della silhouette femminile, svelta e scattante anche quando si trova ad animare volumi enfatici, nell’amore speciale per i materiali nobili e di grande prestanza, nella cura sacrale riservata al taglio e a tutti i processi di costruzione dell’abito, nell’accento posto sempre e comunque sulla raffinatezza e sul lusso. Una singolare e felice comunanza di vedute, e direi anche di passioni, che ha reso la mia avventura decisamente straordinaria, la mia sfida infinitamente avvincente. 

Così, da Dior, per otto anni, ho “respirato” quotidianamente la lezione dell’atelier: cura assoluta per l’abito in tutti suoi dettagli, somma di abilità diverse e tutte eccezionali, discrezione massima, servizio personalizzato alla clientela. Dal disegno alla realizzazione “fisica”, i modelli di Haute Couture, di fatto, non lasciano mai l’atelier. 

Ogni abito è un’entità a sé, con una sua storia. Non solo, persino ogni dettaglio, ogni finitura, ogni cucitura costituiscono qualcosa di unico perché vengono effettuati “ad hoc” per ogni singola cliente sulla base delle sue richieste e della sua figura. 

Questo stato di cose pone il creatore nella condizione di confrontarsi “step by step” con l’abilità e l’esperienza dei suoi collaboratori in atelier. Ed è qui che, a parere mio, si coglie la vera magia della couture: nella somma di tante abilità e nell’altissima qualificazione di tanti artigiani a cui il couturier deve dare un’impronta, una guida, una compiutezza, un po’ come il direttore d’orchestra sul podio…

Cina

“Magia e realtà: nel corso degli anni trascorsi in India, ho conosciuto l’Oriente in profondo, raggiungendo anche mete dove allora non era così facile arrivare. Sono approdato a Cina nel 1973, in piena Rivoluzione Culturale, in Vietnam e Laos poco dopo, appena conclusa la guerra, nel Nord remoto dell’India, in Bangladesh appena dopo il distacco dal Pakistan… Ho visto la fatica quotidiana del vivere, le cadenze rituali di certe abitudini, l’imperturbabilità di certi ritmi, anche l’implacabilità di certe manifestazioni naturali e la rassegnazione con cui vengono accolte dagli uomini. Se le emozioni e le suggestioni che l’Oriente mi ha regalato in quantità impressionante si sono poi tradotte in un lessico di eleganza, di raffinatezza, di bellezza, la chiave autentica di lettura che dà coerenza a tutto ciò è il principio dell’essenzialità, innanzitutto nell’individuazione delle forme e nella loro costruzione. Osservando le donne indiane drappeggiate nei sari – ma anche le donne cinesi in casacca e pantaloni o le laotiane nel sarong – le ho viste svolgere i lavori più umili e faticosi conservando una regalità assoluta. Questo mi ha insegnato quello che io chiamo “il senso del corpo”, ovvero la sua fisicità ed i suoi movimenti come elementi di riferimento a cui concedo priorità assoluta nel processo di costruzione dell’abito. La “lezione” dell’Oriente mi ha permesso di ricalibrare il principio del lusso e dell’opulenza, non negandole, ma puntando invece ad eliminare il superfluo, l’orpello, la ridondanza. E il “mal d’Oriente” ritorna nell’amore per i colori caldi decisi ed i materiali puri. Ocra, arancio, fucsia e sete croccanti dell’India, rosso e broccati della Cina imperiale…”

“La Cina ha il “sapore” dei padiglioni di ferro della Fiera Internazionale di Canton che ho visitato ormai venticinque anni fa, il cielo azzurro e rosa, le figure in movimento vestite in blu copiativo, in grigio, in verde militare. Immagini che vivono dentro di me insieme all’eterna immagine della Cina aulica, del fasto, del rosso, nella lettura fantastica e fantasiosa di un passato che, attraverso ricordi e sovrapposizioni, mi porta al cuore dell’Oriente. Poi c’è la Cina di oggi, che ho conosciuto solo qualche anno fa: l’attualità di un paese che non cessa mai di stupire per la sua energia, le sue potenzialità, i suoi entusiasmi. Un paese nuovo e giovane, indaffarato che raccoglie e centuplica la sfida tecnologica dell’Occidente…”

Il Colore. Emozioni e colori – I colori delle emozioni

“Nella mia ottica creativa, accanto alla forma e alla materia, il colore rappresenta una categoria inscindibile rispetto all’idea stessa dell’abito, sin dal suo primissimo abbozzo….”

“Io sogno emozioni forti, incontri totali con acqua, vento, sabbia.”

“Immagino l’abito come macchia di colore, come bagliore di luce.”

“Ancor più della materia e della forma, i colori sono per me lo strumento-chiave per esprimere e trasmettere le emozioni, condividendole con chi sceglie i miei abiti…

Perché è del tutto naturale che nel colore di un abito ognuno di noi rifletta i suoi gusti e la sua personalità, il suo umore momentaneo e le sue aspirazioni, il suo desiderio di piacere e piacersi….”

“In un orizzonte ideale che abbraccia paesaggi misteriosi, culture ed epoche lontane, nelle mie collezioni si susseguono, si alternano e si confondono tra loro i bagliori dei metalli e il pallore delle giade, i riflessi intensi delle pietre dure, i lampi dei colori energetici e dei colori fluo, la delicatezza delle sfumature dell’alba e dei fiori, i toni densi del fogliame equatoriale e le fantasie incredibili dei mantelli animali…”

“La mia fantasia è sempre in technicolor…”.

“Non ci sono colori che non amo…”

“Ci sono semmai gli amori di una vita e gli amori di una stagione…”

“Nelle mie collezioni però si scorgono ogni anno sfumature e tonalità inedite…

“Sono toni e nuances che formano a loro volta un linguaggio più sfaccettato, per esprimere di volta in volta energia, poesia, magia, seduzione, purezza, opulenza…”

“I colori sono un elemento fondamentale del mio lessico di stile. Ritornano con coerenza stagione dopo stagione, anche se sono capaci di infinite modulazioni…”

“Non è difficile individuare i miei colori di sempre: il bianco, il nero, il rosso, i neutrali, il grigio, l’oro…”

Dettagli

“Condividendo pienamente l’affermazione di Le Corbusier, secondo cui “Dio è nei dettagli”, ho sempre prestato grande attenzione ai dettagli, da quelli “strutturali” – le cuciture sartoriali, per esempio – a quelli “decorativi”, come i ricami, oppure i bottoni-gioiello. In verità, la mia passione più grande e sentita riguarda i dettagli che creano l’effetto, che rendono unico e speciale anche il capo più lineare e semplice per forma e costruzione. In quest’ottica il dettaglio che “fa la differenza” è spesso parte stessa del capo: il collo, i polsi, la cintura, un fiocco, che amo ingigantire, enfatizzare, “sproporzionare” rispetto alla configurazione dell’insieme”.

Eleganza

Cito voci più autorevoli della mia:

L’eleganza è solo un simbolo della superiorità aristocratica dello spirito (Charles Baudelaire)

L’eleganza non esiste sino a che non arriva alla strada. L’eleganza che rimane nei saloni dei couturier non ha maggiore significato di un ballo in costume (Coco Chanel)

La vera eleganza non si può ottenere se non attraverso la personalità (Eduardo de Filippo)

La cultura è come l’eleganza, è buona solo quella che non si vede (Indro Montanelli)

“Aggiungo: l’eleganza è assolutamente innata. E’ una rispondenza. Un’espressione diretta tra il sentimento e la mente. Un modo di porsi agli altri. Può essere elegante una donna grassa o chi ha fretta. Ho visto donne indiane poverissime che erano straordinariamente eleganti nella linea del collo, nel disegno del volto, nella scelta dei colori e delle stoffe che indossavano, nel portamento. Il gesto, il movimento, le proporzioni rendono elegante una donna”.

Emozione

In principio c’è l’emozione. Ogni mio abito ne traduce una, cento, mille, intrecciate in un unico incanto da cui mi lascio conquistare. È vero, ogni mio abito ha un padre nobile: il progetto, che è metodo e logica, intervento ragionato sulle forme, elaborazione ardita di materie. Ma ha anche una madre appassionata: la folgorazione che deriva dall’amore a prima vista per un paesaggio appena scoperto, dal fascino di un viaggio compiuto soltanto con la fantasia, dalla tenacia con cui restano impresse nella memoria la grazia di un movimento, l’abbaglio di un sorriso o di uno sguardo, il profumo di un giardino, il riverbero e il fruscio di una stoffa.

Le emozioni si sedimentano. Si sovrappongono l’una sull’altra, si rincorrono e si compenetrano. Così, io non sento i miei abiti come monadi, ma come tessere di un mosaico, trame sottili di un arazzo. Come elementi di un progetto globale di stile e tappe di un percorso professionale – e umano – di crescita e di maturazione.

Le emozioni si ritrovano. Rivisti nella prospettiva offerta dal tempo, i miei abiti riescono sempre ad incantarmi, ma in modo diverso. Li sento sempre miei, ma li vivo in una luce differente. Mi regalano altre emozioni. Risvegliano ricordi e memorie, ma stimolano anche sensazioni mai vissute. Le tappe di un percorso già compiuto possono segnare già anche gli itinerari di un nuovo viaggio, in cui suggestioni ed impressioni si rimescolano e creano un orizzonte inedito. Dinanzi al quale io stesso mi ritrovo a provare lo stupore più grande, la curiosità più viva, il piacere infinito della scoperta.

Le emozioni che provengono da un abito nascono per essere condivise. Per essere di tutti, sin dal momento in cui l’abito stesso debutta in passerella, viene interpretato nelle immagini, proposto nelle vetrine, indossato per la strada. Anche per questo ho sempre nutrito il desiderio che le testimonianze più vere del mio lavoro non rimanessero inesorabilmente chiuse in un forziere soltanto mio. Se poi le emozioni regalate dall’abito giungono in un museo, diventano realmente di tutti. Diventano patrimonio collettivo e possibile strumento di crescita comune.

Le emozioni devono restare vive e vibranti. Anche se accolto in un museo, vorrei che ogni mio abito continuasse ad essere inteso come un prodotto del nostro tempo che assolve desideri non meno che funzioni concrete, date da assetti culturali e da dinamiche sociali, da ritmi e consuetudini reali. Per questo sono orgoglioso che gli abiti da me donati alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti possano continuare a raccontare la vita…

Femminilità

Curiosamente le mie ricerche nell’ambito dell’abbigliamento maschile mi hanno aiutato a ridefinire e ad arricchire l’immagine che ho della femminilità e dell’eleganza. Disegnare collezioni per uomo mi ha aiutato a capire meglio la moda femminile. L’eleganza maschile si è manifestata in termini di regole, canoni, codici nel concetto tradizionale dell’”uniforme”:una giacca, un pantalone ed eventualmente un gilet. Concetti che ho voluto rivedere e, quando l’ho ritenuto possibile, adattare al gusto femminile. Ritengo di aver ottenuto risultati spettacolari, se non addirittura innovatori in diversi casi, giocando con gli opposti, unendo il desiderio maschile di comodità e solidità alla sobrietà di una femminilità sempre raffinata: camicie impeccabili, dal taglio maschile ma realizzate con tessuti preziosi, femminili. La giacca da smoking addolcita dalla trasparenza del tulle. Tessuti dei pastrani militari usati per cappotti e redingotes avvitate. L’uniforme militare di una volta, la sua ricchezza, la sua opulenza, la ripetizione degli elementi decorativi, le astuzie tecniche e i valori simbolici che la contraddistinguono, è stata una fonte preziosa e un punto di riferimento per l’eleganza femminile d’oggi.

Figure di riferimento

Balenciaga, Dior, Chanel: sono queste – insieme a Worth che per me è il reale fondatore della moda in senso “moderno” – le grandi figure di riferimento per l’eleganza contemporanea e, in particolare, per il mio modo di concepirla e di realizzarla sulla base di quelle che considero vere e proprie affinità, in particolare nei confronti di Balenciaga e di Dior. Con Balenciaga per l’assoluta perfezione delle sue forme e dei suoi volumi – anche di quelli eccentrici, esasperati, irregolari in modo sublime. E con Christian Dior per il suo senso del lusso e dell’opulenza, per la sua ricerca costante nel segno di una femminilità sublime, fatta di silhouettes donanti, di dettagli preziosi, di interpretazioni materiche inusitate. Mentre ammiro Mademoiselle Chanel quale formidabile artefice della liberazione e dell’emancipazione della donna nell’ambito della moda, con le sue linee semplici, i suoi materiali “poveri”, il nitore delle sue fogge”.

Forme

“La primissima definizione formale di un’idea di abito si concretizza nel disegno, un punto d’arrivo nella dimensione della realtà ed insieme un punto di partenza per un progetto. Nello specifico, il disegno per me è necessità e passione insieme. Mi è indispensabile per fermare le impressioni e dar loro un abbozzo di consistenza, in uno schizzo veloce, fatto di pochi tratti a matita, precisi e sintetici. La silhouette fissata nei suoi punti essenziali – le spalle, la vita, le gambe che si allungano sul foglio – consta di poche linee, ma è già una figura. Non potrei mai concepire un abito immobile sulla gruccia: per me ogni embrione di abito è già qualcosa di vivo, perché “lo sento” dotato sin dall’inizio dell’animazione che danno il passo ed il movimento. E come in un normale processo di crescita, questa sorta di essenza dell’abito acquista ben presto forza ed identità quando le poche linee del mio bozzetto vengono sviluppate secondo i principi della geometria in un disegno tecnico, nel quale le forme, le componenti ed i particolari dell’abito vengono analizzati, scomposti e ridefiniti da codici, numeri, misure, elementi di riferimento universalmente comprensibili e condivisibili”.

Grafiche & Fantasie

“Tra rigore e fantasia, le righe rappresentano un elemento che stimola moltissimo la mia fantasia ed appaga il mio senso estetico, nella moda non meno che nel decor della casa, dimensione in cui le righe per me hanno veramente un ruolo primario anche perché hanno sempre “segnato” in modo speciale gli ambienti in cui sono cresciuto e tuttora connotano la dimensione domestica della mia esistenza. Amo le righe per la loro essenzialità grafica che sa essere, allo stesso tempo, potenzialità espressiva, per la ricchezza di variazioni sul tema che consentono, dal gessato più classico ai motivi “bajadère” più vivaci…”.

Il ’68

“Nella cultura di quegli anni ho trovato e messo a fuoco la mia attitudine professionale: lavorare sulla materia, dalle prime spille pop alle sperimentazioni sulla gomma. In seguito avrei scoperto quanto mi fossero congeniali le forme religiose e non violente degli abiti indiani, mentre quelle della cultura occidentale, mutuate dalle armature, sono aggressive. Del resto sono figlio della poesia e della geometria, le mie materie preferite al liceo. Ancora oggi, sono felice quando mi commuovo.”

Il mio percorso creativo

“Il primo ad essere sedotto da quello che faccio sono io stesso. Finché non sono sedotto e convinto non mi ritengo appagato: è il contenuto che cerco, il concetto; se non riesco a trovare un equilibrio tra quello che ho in mente e il risultato finale non sono soddisfatto.”

“In fondo penso che bisogna saper inventare delle storie e raccontarsele: il primo a cui le racconto è a me stesso, quindi, finché non ho il ‘la’ per una storia, che sia fatta di una memoria, di una scia, di una visione, la seduzione non c’è; anzi, lo chiamo ‘pedissequo lavoro manuale’. Poi c’è la voglia del femminile, del tondo: sono dei segni che nascono dalla testa, dalla mano. Se per esempio reputo che la donna vestita da maschietto sia finita, non sono più capace di vederla con la spalla dritta come quella di un blazer da uomo. Se c’è, la spalla deve essere piccola, magari tonda, quindi il disegno mi porta a fare un kimono. Però lo sforzo è fare in modo che il kimono sia nuovo, che vesta, che non abbia quegli ‘impasse’ del tassello o altro. Poi si passa alla materia, agli elasticizzati; i tasselli diventano dei fianchetti che salgono la manica…”

“La mia paura più grande è stata, tanti anni fa, quella di non riuscire a liberarmi dalla necessità del creare per creare, di non riuscire ad avere una libertà anche dal segno, dalla struttura dell’architetto. Sai che sei architetto, sai che conosci la geometria, sai che puoi trovare delle soluzioni nuove, però di fatto non è quello il primo problema. Quello che mi deve convincere è la proporzione, la dimensione o l’’umore’ del vestito.”

“Il genio è stato quello di applicare al mio lavoro l’educazione formale dell’architetto, associata anche a una concezione di vita di qualità. Sono cose che ho trovato in me, che mi sono state insegnate dai miei genitori, dalla mia famiglia… E poi dare spazio a questi gesti ampi, che nascono anche dalla voglia di farsi notare. Non per far notare me stesso, ma chi indossa i miei abiti; la grandiosità, il lusso agli estremi; che poi sono ancora delle matrici, ma vissute in maniera diversa. Però sono stati momenti determinanti del mio far moda: se non avessi avuto tutto questo, non avrei saputo affrontare l’esperienza di dirigere l’atelier Christian Dior a Parigi.”

India

“E’ stata la prima vera esperienza lontano da ambienti consueti, la necessità di calarsi in un realtà completamente diversa rispetto a quelle conosciute. Ci sono arrivato per la prima volta nel 1973, praticamente da solo, sapendo benino l’inglese ma ovviamente senza la minima conoscenza di hindi o di altre lingue indiane, e mi sono ritrovato alle prese con i problemi contingenti di una quotidianità che, a casa, mi sembravano non esistere neppure. Con la necessità di adattarsi al clima, all’alimentazione, ai ritmi. Le impressioni sono state così forti che si conservano perfettamente nitide ancora oggi. Al mio arrivo a Bombay, per un disguido non ho trovato le persone che dovevano accogliermi e che sarebbero arrivati soltanto due giorni più tardi. Mi sono trovato catapultato in una città immensa, brulicante, rumorosa, tumultuante dove è quasi impossibile orientarsi. I cartelloni dei film, coloratissimi e altri come gli edifici con i volti ammiccanti dei divi più conosciuti e l’intreccio misterioso delle lettere dell’alfabeto hindi, gli animali liberi per la strada, uomini e donne che arrancavano portando sulla testa, sulle spalle sui carretti ogni genere di mercanzia e di pesi. Per sottrarmi alla valanga di suggestioni, trascorrevo le ore libere davanti all’Oceano, leggendo e disegnando. A Delhi, una sera, sono capitato davanti al Red Fort, nel pieno di un ritrovo di Sikhs, uomini altissimi, a torso nudo, il corpo lucido di unguenti, che cantavano e danzavano agitando le armi. Nel buio della notte vedevo i fuochi, i pugnali lucenti, le pupille dilatate e incendiate dagli stupefacenti, di cui si sentiva l’odore acre. E poi mi hanno conquistato le donne indiane: le mille sfumature della pelle, i mille colori dei sari, i mille modi di drappeggiarli, ogni piega con un suo significato, una sua accuratezza. Il valore simbolico dei monili, i segni di identificazione con la propria casta: una dignità assoluta nei sorrisi, negli sguardi, nei gesti. Una lezione fondamentale di vita e di stile, senza la quale, probabilmente il mio percorso sarebbe stato profondamente diverso”.

Lessico

“La storia del mio stile si fonda su una sorta di alfabeto, di lessico stilistico che può manifestarsi in infinite varianti, evolversi nel tempo, arricchirsi, assimilare nuovi segni, restando però coerente. La mia esperienza creativa di tutti questi anni – in termini tanto di atteggiamento operativo quanto di impostazione di metodo – altro non è se non l’applicazione in concreto di questo lessico ed il suo costante aggiornamento che si compie nella perizia con cui si attuano tutti gli interventi di realizzazione di ogni singolo oggetto (sia esso un abito da gran sera, un impeccabile completo maschile, un jeans, un accessorio…), e che si concretizza nel rigore delle forme e delle costruzioni, nella perfezione delle proporzioni, nella sintonia totale con il corpo. Il lessico Gianfranco Ferré si individua, per esempio, nel ricorso sistematico a materiali importanti e spesso esclusivi arricchiti sempre da lavorazioni all’avanguardia, nella cura sacrale riservata ai particolari ed alle finiture, nel gioco appassionato tra formale ed informale che si compie come semplificazione del primo e nobilitazione del secondo, nell’intenzionale commistione di generi, funzioni e tipologie che produce grande originalità. Applicare il mio lessico porta al piacere ed alla certezza di ritrovare in ogni collezione presenze che non hanno tempo (la camicia iperfemminile, il tailleur perfetto, la sera sontuosa, lo sportswear raffinato) e danno un senso preciso di continuità, di linearità, di fedeltà ad un’idea di bellezza”.

Lusso

In tempi di edonismo mi sono sempre sforzato di proporre il lusso della sostanza, un lusso di contenuti e di qualità. In tempi di minimalismo ho continuato a sostenere le ragioni del lusso. Ragioni in cui credo fortemente. Perché il lusso è un grande, innegabile piacere senza tempo.

Maschile/Femminile

“Si deve giocare con il guardaroba, maschile o femminile che sia. Interpretarlo, adattarlo a sé, “percorrerlo” in libertà, per mettere il trench da Humprey Bogart sopra il tubino da Audrey Hepburn, il piumino “tecnico” (che magari è in taffettà lucente) sull’abito da sera, il body-guepiere mozzafiato sotto il tailleur gessato, eventualmente evitando questo accostamento per l’appuntamento di lavoro alle dieci del mattino. Giocare con il guardaroba è espressione di personalità e identità. E per lo stile di oggi è quasi un must. La realtà del nostro tempo è fluida, articolata, multiculturale, in continuo movimento. Deve esserlo anche la moda. E, soprattutto, deve esserlo il nostro modo di vivere la moda. Anche per questo, il tailleur “a uomo” non è più il power suit degli anni Ottanta. Può essere in tessuto maschile, secco e funzionale, può essere definito da dettagli tecnici, ma segue nella costruzione la logica naturale del corpo, rispetta il bisogno di comfort e le forme della femminilità: ha le spalle ammorbidite ed appena imbottite, ha la vita segnata ma non strizzata, i revers misurati; può mutare d’aspetto, grazie a tagli ed accorgimenti strategici, così che la giacca, che cade diritta e impeccabile, può anche drappeggiarsi come una stola; se c’è l’effetto gessato, può essere il risultato di impunture da alta sartoria o persino di ricami. Nel Terzo Millennio, il senso del “maschile al femminile” è proprio questo: mischiare, interpretare, applicare le logiche dello stile maschile alle tipologie del vestire femminile, scambiare materiali, tecniche di costruzione, scelte di colore, fogge, finiture, funzioni d’uso… Così, se la camicia ha un taglio perfetto a uomo, è in raso lucente e candido, se è in Oxford, è drappeggiata e sontuosa.

Il jeans è asciutto e scattante, ma è in raso jacquard o in broccato. Lo smoking diventa abito da sera anche per la donna, ma perde le maniche, oppure è costruito in certe sue parti in tulle nude-look. Il pastrano militare è severo, ma ha il bordo in visone, come la jeans jacket. Il piumino è caldissimo e iperfunzionale, ma ha le imbottiture calibrate in sintonia con la silhouette”.

Materie

“Io amo i materiali puri, pregiati come la seta, duttili come la pelle, leggeri e naturali come il lino, caldi ed avvolgenti come la pelliccia. Della seta in particolare, amo le tipologie più preziose: l’organza iperfemminile, il taffettà corposo, che su un corpo in movimento produce un fruscio ultrasensuale. Ma con eguale entusiasmo sono un sostenitore della sperimentazione e della ricerca applicata ai materiali che per la moda di oggi è una necessità. La fornisce di nuove sostanze, consente usi inediti di materie tradizionali, amplia i limiti della creatività, la proietta verso il futuro. Per me la ricerca è anche passione, un filo rosso che spiega moltissimo della mia creatività e la percorre senza mai interrompersi. Io amo il rapporto diretto con la materia, amo toccarla, maneggiarla, inventarla, reinventarla, cambiarla. Tentativi su tentativi, progressi che si sommano, avvicinamento progressivo al risultato desiderato: ricerca e sperimentazione diventano alchimia. Con tantissime sfide vinte: il primo tulle elasticizzato e “rivelatore”, il pizzo gommato, il costume da bagno in lattice, il jeans che sembra carta, la maglia che sembra pelliccia, gli “animal prints”, la pelle resa duttile come il tessuto, la pelle accoppiata al pizzo, la seta stropicciata come la carta…”

Per me è normale associare il concetto di materia al concetto di alchimia. Ritengo che questo termine descriva in modo illuminante come il creatore di moda possa essere anche artefice di elaborazioni materiche mirate ad ottenere effetti a sorpresa, a sfumare il confine che separa la realtà della materia dal piacere che danno i richiami fantastici, le suggestioni e gli echi derivati dalle dimensioni più disparate, dal mondo della natura e degli animali in particolare. Questo “gioco” si esprime, nelle mie collezioni, nel ricorso alla pratica del tromp-l’oeil, ovvero nel trattamento di materiali che ne riproducono otticamente altri, completamente differenti per peso, consistenza ed origine. La ricerca dell’effetto come ragione intrinseca di un abito e l’applicazione del principio per cui “nulla è ciò che sembra” sono per me fra gli stimoli creativi più accattivanti. E’ un “gioco” di fantasia, ma anche una sfida continua alla sperimentazione, alla ricerca, all’esaltazione di tutte le potenzialità della materia”.

Milano

”Di Milano amo lo spirito concreto, la dimensione privata che garantisce privacy, discrezione, concentrazione per il lavoro. Milano è una città piccola, che vive “in interno”. Un tempo, nei quartieri alti, i palazzi si proiettavano nei giardini bellissimi rinchiusi dai portoni, mentre in quelli popolari l’animazione era nei cortili, sui ballatoi delle case di ringhiera. E’ la forza e la debolezza di Milano: ciò che è di tutti non è sempre curato, la città non è tanto brava a vivere e pensare “in pubblico”; il suo progresso spesso nasce dall’individualità. Un difetto che si traduce oggi in infrastrutture carenti, nella mancanza di una politica globale della città e di una pianificazione del vivere urbano, nell’assenza di risposte alle necessità collettive. Qui vorrei che Milano migliorasse… Intanto prendo delle boccate d’aria altrove. Parigi, New York, Londra mi offrono ciò che Milano non mi dà. Ampio respiro, senso della metropoli e del mondo, orizzonti multiculturali e multirazziali, uno stimolo indispensabile per il mio lavoro. Poi torno a casa, a Milano…”

Moda e Architettura

“La mia idea di moda si fonda sul principio di un intervento ragionato sulle forme come punto di partenza per la creazione dell’abito, che è sempre il risultato di un processo di costruzione e di un progetto. Vestire una donna o un uomo significa dunque ragionare in termini di linee, volumi, proporzioni. Esattamente come “vestire” uno spazio. La differenza, importantissima, risiede nel fatto che per il fashion designer l’elemento di riferimento primario è il corpo umano, ovvero un’entità in movimento che come tale va considerato sin dal primissimo abbozzo d’idea per un abito. Inoltre, in entrambe le situazioni non può e non deve mancare anche un approccio emozionale, dettato dalla fantasia e dalla sensibilità.”

“Credo si debba sempre ricercare un equilibrio tra l’approccio “cerebrale” all’abito – inteso cioè come risultato di un processo di elaborazione creativa ragionato e pianificato – e l’approccio emozionale che fa dell’abito il risultato di un’intuizione di pura fantasia. Ciò vale per il creatore non meno che per i potenziali fruitori che intendono e vivono l’abito come oggetto ad alta definizione funzionale, ma dal potenziale emozionale non meno intenso. Un oggetto d’uso dunque: che si butta facilmente in valigia, ma che non si butta via dopo una stagione; che si presta ad un utilizzo versatile, ad un consumo magari veloce, ma sempre ragionato e realistico; che vale perché è “fatto bene”, perché è bello e confortevole insieme. E poi c’è la valenza espressiva dell’abito, che in una dimensione di vita omologata ha il potere di rendere individuo ogni uomo e ogni donna, di dar corpo e visibilità a desideri, sogni, emozioni, volontà, slanci. L’abito è un mezzo, uno strumento, attraverso il quale si compie il contatto tra vita interiore e vita reale”.

Moda e Arte

“E’ determinante la mia passione per le arti figurative della contemporaneità, che mi affascinano per la loro energia, per la carica espressiva riassunta quasi sempre in tratti intensi, vibranti di velocità e di immediatezza. Credo che la chiave di lettura di tutta la nostra epoca – in tutte le sue espressioni, i modi di vivere, le manifestazioni del pensiero, dell’arte e della cultura – sia infatti una concezione del tempo, dello spazio e del movimento molto diversa rispetto al passato perché fortemente incentrata sulle valenze della velocità, dell’energia, del dinamismo. Valenze essenziali anche nella quotidianità della nostra vita che è fatta di viaggi, spostamenti, comunicazioni che si compiono in tempo reale, ritmi produttivi sempre più accelerati, flusso costante e rapissimo di notizie, informazioni e dati, flusso tale da annullare i limiti sino ad ora imposti all’agire umano dalla concretezza delle dimensioni spazio-temporali. Questa credo sia realmente una delle “cifre” primarie della nostra epoca che, come tale, non può non permeare la moda. E nella mia moda, nel mio stile c’è ed è sicuramente forte il senso del movimento, che connota l’oggetto-abito sin dal suo nascere sotto forma di schizzo: pochi “segni” tracciati sul foglio bianco in velocità – appunto – ma che già esprimono un rapporto immediato, diretto – direi naturale e necessario – con il corpo e la sua fisiologica necessità di muoversi, in sintonia con ciò che lo ricopre, lo protegge, lo abbellisce. Un senso del movimento e della velocità che connota, nondimeno, anche il prodotto-abito che nasce pur in un contesto di esclusività e di originalità per una fruizione comunque agile, veloce, libera, anche se consapevole e ponderata”.

“Il mio interesse per le arti figurative viene prima del mio lavoro. Si può dire che sia un po’ parte delle mie radici, come frutto di un certo tipo di educazione e di consuetudine alla qualità che ho “respirato” in famiglia e che fa dell’arte un ambito di riferimento irrinunciabile, accanto alla musica o alla lettura, ma anche all’eleganza nel vestire, alla cura per la casa o al piacere della buona cucina. Detto questo, è assolutamente vero che nel mio lavoro ho “collezionato” grandi esperienze e emozioni ispirate ai protagonisti dell’arte di tutti i tempi e di ogni latitudine: la delicata severità dei volti di Utamaro, le cromie energetiche alla Warhol, le pulsioni avanguardistiche del cubismo e del dadaismo, l’evanescenza di certe figure di Giacometti o di Modigliani, l’espressività immediata della tattoo art etnica. Sino ad un collezione Donna tra le più recenti, per la quale mi sono lasciato conquistare dall’esperienza artistica di Vittorio Zecchin, uno straordinario italiano che ha assorbito in forme assolutamente personali la lezione della Secessione viennese. Le sue opere sono caratterizzate da moduli grafico-pittorici ripetuti serialmente, quasi ossessivamente, secondo un modo molto moderno di intendere la pittura e il decoro. Io li ho voluti in dimensioni e proporzioni differenti. Li ho resi con mezzi diversi per animare forme e materie, giocando tra geometrie elementari – quella del cerchio e del rettangolo in particolare – e costruzioni accurate. In un rapporto con l’opera di “riferimento” che, come sempre, non è e non può mai essere immediato, poiché, al contrario, si colora di sfumature, apporti personalissimi di interpretazione, ridefinizioni nel segno dell’originalità…”

“Ferma restando la mia ammirazione per l’arte della contemporaneità, ritengo che un altro momento sublime per la storia dell’arte – e dell’umanità in generale – sia il Rinascimento, epoca di grandi uomini, di grandi idee e di grandi slanci. Un‘epoca il cui segno determinante è la ricerca di perfezione e di armonia, riportate però, per la prima volta dalla fine dell’era classica, a dimensione d’uomo. E’ un’epoca di ragione e di passione, di utopie e di metodo, di equilibrio tra inventiva e sperimentazione già moderna. Un’epoca in cui il motore irrinunciabile è l’intelligenza umana, l’apporto fatto di attenzione, di amore, di abilità, che rendono unico il risultato del creare. Nel nome di una visione positiva dell’esistenza”.

Moda e giovani

“Io sono convinto che l’istruzione finalizzata alla moda, al pari di ogni altro specifico sbocco professionale, abbia un senso ed una funzione se si crea un legame, un interscambio direi, tra scuola e dimensione del lavoro vero e proprio, tra dimensione dell’apprendimento e dimensione della verifica in concreto degli insegnamenti. Un legame che dovrebbe tra l’altro essere premiante per entrambe le parti. Un legame che in Italia può contare su una normativa ancora insufficiente che ne stabilisca con chiarezza forme e modi, come altrove avviene invece da tempo. In Francia, per esempio, tutte le Maison de Couture devono attenersi alla regola della Chambre Syndicale (vera e propria emanazione dello Stato con potere decisionale che orienta tutto il settore) che impone di accogliere negli atelier, un certo numero di allievi delle scuole di moda in qualità di apprendisti. In altre parole, io non credo che esista un problema di discrepanza qualitativa tra l’insegnamento impartito nelle scuole di moda italiane e quello offerto all’estero. Il problema è semmai di strutture e di infrastrutture, di mezzi e, come ho detto, di normativa. Una normativa che in generale ponga la dimensione della formazione e quella del lavoro in un rapporto proficuo e al passo con i tempi”.

“La scuola deve segnare percorsi, aprire orizzonti, essere “avanti”, fornendo a chi la frequenta strumenti e valori. Ed operando non come corpus separato, ma come parte integrante della realtà, cogliendone dinamiche, fermenti, stimoli. Sicuramente ci sono ancora carenze nell’apparato scolastico – soprattutto pubblico – che in Italia non privilegia la formazione specifica in ambito moda, e neppure, in verità, quella professionale in generale. Inoltre non è neppure particolarmente agevole, quantomeno in relazione ad altri paesi, la normativa che regola l’attuazione degli stages nelle aziende, anche se va riconosciuto che in proposito molto è stato fatto negli ultimi tempi, né l’attuale normativa aiuta ad assicurare un futuro alla creatività. Persiste insomma una sorta di scollamento tra mondo della scuola e mondo del lavoro, che impedisce alla moda di disporre di professionalità adeguate alle reali esigenze, né aiuta ad assicurare un futuro alla creatività. Di fronte a questo stato di cose, diventa più facile per la moda italiana attingere nuove forze dalla scuole di altri paesi, in cui – per tradizioni culturali, impostazioni didattiche, assetti legislativi – la creatività dei giovani viene stimolata e plasmata con una rispondenza maggiore rispetto ai bisogni effettivi del mondo professionale”.

“Fortunatamente con i giovani io ho un ottimale punto d’incontro nel mio atelier, dove mi affiancano assistenti e stagisti; non solo sono tutti giovani, ma sono anche ben mescolati in fatto di provenienza, nazionalità, lingua, perché credo che il principio del melting pot sia stimolante e vantaggioso per tutti quelli che ne sono parte. In questo contesto i miei consigli si leggono in termini di esempio: determinazione, volontà, abnegazione, anche sacrificio. La moda è logica, metodo, sistema. E’ lavoro. Anzi, la moda sono tanti lavori: quello del disegnatore, quello del sarto, dell’artigiano, del tecnico… E un lavoro tale non può non presupporre entusiasmo, dedizione, curiosità intesa come capacità e volontà di guardarsi intorno per ricavare stimoli, cultura intesa come conoscenza delle esperienze altrui, delle espressioni del sapere umano, di altri orizzonti ed altre realtà di vita. Un consiglio in sintesi? Conoscere e sperimentare, lavorare e sapere quello che si vuole”.

Politecnico ‘68

“Mi sono laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1969, con Franco Albini, scrivendo una tesi sulla “Metodologia dell’approccio alla composizione”. Il progetto architettonico che ho presentato riguardava un insediamento urbano nella periferia. Erano gli anni della contestazione studentesca ma anche di grande fermento e di entusiasmo. Il livello dell’insegnamento era altissimo in quel periodo. Il Preside di Facoltà era Carlo de Carlo prima e Paolo Portoghesi nell’anno della mia laurea. Molti dei miei docenti – Franco Albini, Ernesto Rogers e Marco Zanuso innanzitutto – hanno “firmato” con i loro progetti la rinascita di Milano dopo la guerra. Ed alcuni dei più grandi architetti o artisti italiani di oggi – come Aldo Rossi, Gae Aulenti, Renzo Piano e Corrado Levi – allora erano presenti in Facoltà come assistenti o docenti ordinari.

Radici e Valori

“Il mio rapporto con Legnano è fondamentale. Semplicemente perché a Legnano ci sono le radici. Io che amo infinitamente viaggiare – nella realtà non meno che con la fantasia, per lavoro e per piacere – non potrei vivere senza la certezza di un luogo, di una dimensione in cui ci si sente naturalmente a casa, in cui naturalmente si ritorna e ci si ritrova. Una dimensione tanto necessaria ed indispensabile quanto forte ed irresistibile è il desiderio di scoprirne e conoscerne altre. E’ la “certezza delle certezze” che in qualche modo aiuta anche a comprendere e a “decifrare” ciò che la vita, con le sue diverse realtà, ci pone dinanzi. Con la mia città ho un rapporto vivo, tutt’altro che nostalgico. Lì sono nato e cresciuto; lì non c’è solo la mia casa, ci sono soprattutto la mia famiglia ed i miei amici più cari; lì ritorno ogni sera da Milano per cenare con mio fratello, mia cognata e qualche amico. E’ una città piccola, discreta, solida, vivibile. E’ “provincia”, senza dubbio. Ma lo è nel senso migliore del termine”.

“Il bagaglio di valori e di certezze che mi vengono dal mio vissuto, dal mio ambiente di origine e dalla mia famiglia in particolare hanno giocato e continuano a giocare un ruolo determinante nel mio percorso creativo, non meno nella mia vita personale. I cosiddetti “solidi valori borghesi”, l’educazione, il senso del dovere e della misura, la discrezione, la disciplina sono stati, io credo, il migliore punto di partenza, il migliore “trampolino” che io potessi augurarmi. Mi hanno consentito di affrontare tutte le prove e tutte le sfide che il mio lavoro un po’ speciale mi ha posto dinanzi anno dopo anno con grande determinazione ed altrettanto rigore, nella convinzione che ogni traguardo, ogni successo fossero da meritare con il massimo dell’impegno e con il massimo della responsabilità. I “solidi valori borghesi” sono parte del mio essere e del mio vivere. Ciò vale per le grandi decisioni, per la visione complessiva della vita e del lavoro che mi sforzo di esprimere in ogni cosa che faccio. E vale in egual misura per le piccole, “normali” cose della quotidianità. Nell’importanza che dò agli affetti, ai legami consolidati nel tempo, al ruolo della fedeltà, dell’onestà e della sincerità con cui vanno vissuti, necessariamente i rapporti interpersonali. E ancora, nell’attaccamento che ho per i piccoli-grandi riti di un vivere “normale “e sereno, equilibrato e, soprattutto, umano: i giorni di festa trascorsi in famiglia, gli affetti saldi e fedeli, i rapporti di amicizia che durano nel tempo…”

Rêverie

È una parola che ben esprime quel sentimento a metà tra il sonno e la veglia, quel rincorrersi di sensazioni che ancora non sono pensieri ma immagini e frammenti, da cui nasce l’ispirazione. Il sogno che si trasforma in meditazione, la meditazione che trascolora sulla spinta delle emozioni. È in questo procedere vagabondo, per scene – direi per appunti – che si forma il terreno su cui mette radici l’immaginario come un paesaggio fantastico cui approdo per vie del tutto naturali.

Valori

La creatività: intesa come capacità di interpretare l’eleganza in un’ottica fortemente individuale, elaborando soluzioni costantemente nuove ed originali ed integrando la conoscenza ed il rispetto profondo per le regole e per la tradizione dello stile – non meno che per la metodologia del design di moda – con un’appassionata volontà “in progress” di ricerca e di sperimentazione.

La qualità: come risultato di un’attenzione massima per il pregio intrinseco del prodotto, che nasce dal rigore dello studio delle sue forme, dalla scelta accurata dei materiali e soprattutto dal ricorso a trattamenti e lavorazioni che integrano il meglio della tradizione artigianale con le più avanzate espressioni della tecnologia e del know how industriale. La somma di tutti questi attributi conferisce al prodotto Gianfranco Ferré una sorta di valenza al di là delle stagioni, facendone qualcosa che è “di moda” ma che, allo stesso tempo, è al di sopra delle “mode”.

L’unicità: obiettivo che connota sempre l’iter progettuale di Gianfranco Ferré, indipendentemente dall’oggetto del creare. E’ l’obiettivo di una ricerca appassionata e costante nel segno dell’esclusività e della bellezza, che esprime un concetto moderno di lusso fortemente calibrato sul valore intrinseco del prodotto non meno che sulla sua valenza emozionale. In questa logica il prodotto Gianfranco Ferré viene concepito tanto come oggetto d’uso quanto come oggetto del desiderio calibrato sul bisogno di individualità e di espressione di sé, che sempre più regola l’approccio alla moda. In risposta a questa esigenza, l’unicità di un abito Gianfranco Ferré si concretizza in particolare nelle forti connotazioni di poesia, di “magia” e di sogno che vi sono intenzionalmente incorporate.

La coerenza: ovvero l’identità forte di uno stile versatile ed articolato, ma costantemente fedele a se stesso, perché capace, stagione dopo stagione, di declinazioni inedite e di espressioni su molteplici livelli, tutte sempre ed immediatamente riconducibili a principi estetici che non cambiano nel tempo, ad un lessico di segni e di espressioni che possono variare, arricchirsi, assumere nuove sfumature conservando comunque un inconfondibile “inprinting”.

La cultura: vissuta come capacità di elaborare soluzioni di stile, attingendo non solo ad uno specifico e personale back ground formativo, ma anche facendo riferimento alle tante espressioni della vita del nostro tempo – le arti figurative, il design, il cinema, la letteratura – così come alle tante “culture” del mondo ed alle più svariate epoche storiche. Lo stile Gianfranco Ferré si può intendere dunque anche come risultato di una lettura approfondita, critica, volutamente soggettiva ed originale di tutti questi apporti.

Vestire Donna e Uomo

L’uomo di oggi, la donna di oggi. Uguali tra loro nel senso di libertà, nell’indipendenza del carattere, nell’autonomia del gusto. E profondamente diversi. Nei miei abiti io amo sottolineare le differenze che li oppongono e li rendono complementari uno all’altro. Amo le dolcezze del corpo femminile, amo sottolinearle e svelarle, per dare una forza moderna alla seduzione. All’uomo concedo invece il lusso della disobbedienza, della disinvoltura con cui rileggere il principio consolidato dell’abito-uniforme…

Walter Albini

“Di Walter Albini conservo moltissimi ricordi: per più di una stagione, agli inizi della mia carriera, ho collaborato con lui disegnando accessori per le sue collezioni. Del suo stile conservo un’impressione indelebile di fantasia assoluta, di propensione dandy e volutamente pignola al coordinamento a tutto campo, dall’abito alla sciarpa, alla pochette nel taschino. Un coordinamento operato a priori, già a livello di primo abbozzo del capo… Lui era così: l’estro allo stato puro, la fantasia capace di valicare e quasi di annullare la realtà, l’approccio puramente estetico al concetto di eleganza. Ma soprattutto conservo un ricordo personalissimo, un’immagine precisa, una specie di flash che ancora riesce a sorprendermi quando riaffiora nella memoria. Era la prima volta che lo incontravo. Io indossavo un abito di gabardine beige, rigorosamente borghese, ed avevo raccolto i bozzetti che intendevo mostrargli in una cartella di pelle ancora più borghese. Lui mi ha accolto in un completo di lino bianco, accecante, totale, quasi irreale. Non potevamo apparire, ed essere, più diversi l’uno dall’altro…”