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Parole insolite per concetti inconsueti: la disinvoltura dell’abito diritto di jersey grigio, riscaldato dal cappotto di faille e jersey (un tessuto doppiato che assume aspetti plastici e nuovi). La serietà del tailleur da passeggio in lana gessata secca e brillante: una silhouette asciutta, senza colletto, segnata in vita, che però non cancella la femminilità. Esaltata da un mantello a ruota di faille impermeabile nera. La sensualità della sciarpa bianca che ha la funzione ambigua di manica, e del jersey che fodera il cappotto di petit-gris. La fastosità controllata delle paillettes metalliche che imitano la grana irregolare del tweed, e del tweed impreziosito dai cristalli. La naturalezza degli chemisiers di faille a due colori, con la gonna a pannelli che fascia il dietro e prende volume davanti, ma senza rigidità o sostegni: semplicemente piegando e ripiegando il tessuto. La noncuranza nel trasformare le paillettes in squame ultra morbide di rettile accostate alla martora nei cappotti, nel posare le spirali a occhio di pernice sopra i pantaloni di grisaglia. La sicurezza nel riaffermare i temi tipici di Gianfranco Ferrè: le spirali, il mezzo nodo rigido, le palette di toni dal grigio fino al bianco e nero, il neutro e neutrale, che corrisponde a certi schemi di ufficialità. Il bisogno di un gesto che segni la collezione: stringersi, per esempio. Portare la sciarpa, o avvolgersi la sciarpa-manica intorno al braccio, per una morbidezza insistita dei movimenti.

L’ATELIER GIANFRANCO FERRÉ

C’è chi segue la strada canonica, il percorso logico di sempre, e chi, con altrettanto rigore, sovverte i termini della questione: Gianfranco Ferré, stilista eccentrico, dopo otto anni di prêt-à-porter che qualcuno ha definito “il più intellettuale e sofisticato del made in Italy” arriva all’alta moda.

E subito ci si domanda: non è una contraddizione?

“E’ più che coerente, invece. Una debita conseguenza del livello a cui è approdato il prêt-à-porter. Ormai certi capi sono così selezionati e preziosi che si vendono “ad personam”. Perché non spingersi un po’ più in là e proporli su misura?”.

Questo riesce a influenzare la sua ispirazione?

“Mi fa sentire fortemente la necessità della discrezione, di una certa quiete di gesti e comportamenti che rifletta la padronanza interiore. Se penso a una situazione, un momento tipo, ho in mente la tunica bianca, tipica di Ferré, la sciarpa di castoro nero, il movimento dolce della mano che la stringe, con i torchon di jais nero ai polsi. Senza l’esuberanza del prêt-à-porter”.

Non è il contrario? In genere è l’alta moda ad essere ritenuta appariscente e destinata a stupire.

“Non la mia. Sono convinto che debba avere linee più contenute del ready-to-wear. Trovare proporzioni nuove e più aderenti alla figura”.

Questo è il contributo di Gianfranco Ferré all’alta moda: e viceversa? Che cosa dà l’alta moda a Ferré?

“La possibilità di dimostrare una cultura tecnica e una sperimentazione affinata collettivamente. Perché noi siamo in grado di portare nell’alta moda alcune tecniche proprie del prêt-à-porter, senza togliere all’abito la manualità e l’artigianalità che deve avere: infatti ci sono accorgimenti, studiati da noi, che vengono approntati come in un atelier”.